Murder in Monaco: il nuovo true crime su Netflix sull’omicidio di Edmond Safra

Murder in Monaco: il caso Edmond Safra
Veronica Loop

Il Principato di Monaco esiste meno come stato-nazione e più come una curiosità geopolitica, un’enclave sovrana dove la densità della ricchezza distorce l’atmosfera stessa. È una città verticale di vetro e cemento aggrappata al bordo del Mediterraneo, una fortezza di esenzione fiscale e sorveglianza dove l’obiettivo della telecamera è onnipresente quanto le auto di lusso. Qui, la sicurezza è la principale esportazione e la privacy l’importazione più ambita. È un luogo in cui il contratto sociale è esplicito: il silenzio viene scambiato per sicurezza, e la visibilità è gestita con la precisione di un tagliatore di diamanti. Tuttavia, come chiarisce con agghiacciante precisione il nuovo documentario in arrivo su Netflix, nessuna fortezza è inespugnabile quando la minaccia ha origine all’interno delle mura.

Murder in Monaco: il caso Edmond Safra, diretto da Hodges Usry, approderà a breve sulla piattaforma di streaming, gettando una luce cruda e in alta definizione su un evento che un tempo minacciò di infrangere l’immagine accuratamente curata del regno dei Grimaldi. Il soggetto è la morte di Edmond Safra, il banchiere miliardario la cui scomparsa in un incendio nel suo attico al volgere del millennio rimane uno degli episodi più grotteschi e affascinanti nella storia dell’alta finanza. Il film non è semplicemente il racconto di un crimine; è uno studio antropologico della paranoia che accompagna l’immensa fortuna, una dissezione della “sindrome dell’eroe” e una cupa meditazione sulla vulnerabilità del corpo umano, indipendentemente dai miliardi che lo isolano.

Usry, un regista il cui lavoro precedente ha attraversato i confini tra narrativa e videoclip musicali, porta un’estetica visiva distinta in questo progetto. Il documentario è costruito come un palinsesto, sovrapponendo filmati d’archivio sgranati e caotici della notte dell’incendio a riprese panoramiche e immacolate fatte con droni del principato così come appare oggi. Il contrasto è intenzionale e stridente. La Monaco del presente è un portagioie sterile inondato dal sole; la Monaco dei nastri d’archivio è un luogo di fumo, confusione e lampeggianti blu, un momento in cui il velo di invulnerabilità fu violentemente squarciato. Il film opera nella tensione tra queste due realtà, chiedendo allo spettatore di guardare oltre lo scintillio dello Yacht Show e del Gran Premio, verso le correnti più oscure che vorticano nel porto.

Il banchiere di Aleppo e l’architettura della fiducia

Per comprendere la grandezza della tragedia, bisogna prima capire il colosso che è caduto. Il documentario dedica il suo primo atto alla meticolosa costruzione della biografia di Edmond Safra, presentandolo non solo come un uomo ricco, ma come l’ultimo di una specie in via di estinzione: il banchiere privato come confidente, sovrano e custode di segreti. Nato a Beirut da una famiglia ebrea sefardita con radici ad Aleppo, in Siria, Safra era erede di una tradizione bancaria che precedeva lo stato-nazione moderno. Il film tratteggia il suo lignaggio con una riverenza che rasenta il mitico, descrivendo un mondo in cui la reputazione era l’unica valuta che contava e dove gli affari venivano condotti nei toni sommessi del suq e del salotto.

Il genio di Safra, come ritratto nel film, risiedeva in una comprensione soprannaturale del rischio. Fin dalla sua adolescenza, durante la quale si dice abbia accumulato una fortuna arbitrando sovrane d’oro tra i mercati europei, mostrò un istinto per il movimento dei capitali quasi alchemico. Capiva che, in un secolo volatile, i ricchi non temevano nulla più dell’instabilità. Le sue istituzioni — la Trade Development Bank a Ginevra e più tardi la Republic National Bank of New York — furono costruite come bastioni di conservatorismo. Il documentario tocca la famosa leggenda delle banche Safra: i libri mastri tenuti in antica scrittura araba per garantire la privacy assoluta, un dettaglio che parla di una visione del mondo plasmata dalla precarietà della vita ebraica in Medio Oriente.

Tuttavia, il ritratto che emerge non è quello di un magnate spavaldo, ma di un uomo sempre più assediato. Al momento degli eventi in questione, Safra era in uno stadio avanzato del morbo di Parkinson. Il film non rifugge dalla realtà viscerale della sua condizione. Vediamo un uomo che una volta muoveva miliardi con una telefonata, ora incapace di muovere i propri arti senza assistenza. Richiedeva cure infermieristiche costanti, una rotazione di personale che introdusse una variabile fatale nel suo ambiente ossessivamente controllato. Il documentario postula che il mondo di Safra si fosse ridotto alle dimensioni del suo attico a “La Belle Époque”, un edificio che si erge come un monumento alla grandezza di un’era passata.

Questo declino fisico è giustapposto al suo zenit professionale — e alla sua uscita. Poco prima dell’incendio, Safra aveva concluso la vendita del suo impero bancario a HSBC. La transazione, valutata in undici cifre (10,3 miliardi di dollari), fu una capitolazione alle maree mutevoli della finanza globale, ma fu anche un disinvestimento che lo lasciò liquido ed esposto. Il film suggerisce che per un uomo che si definiva attraverso il controllo sul capitale, questa vendita fu una forma di morte spirituale che precedette quella fisica. Era un re che aveva abdicato, in attesa della fine dei suoi giorni in una torre dorata, circondato da guardie di sicurezza che, nella notte fatale, sarebbero state inspiegabilmente assenti o inefficaci.

Il Berretto Verde e il complesso dell’eroe

Il fulcro narrativo di Murder in Monaco: il caso Edmond Safra è Ted Maher, l’infermiere americano le cui azioni sono citate come la causa della catastrofe. Maher è un personaggio di complessità shakespeariana e banalità americana, una figura che sfida la facile categorizzazione di un killer a sangue freddo. Ex Berretto Verde riconvertito in infermiere neonatale, Maher era alle dipendenze di Safra solo da pochi mesi. Il documentario esplora la dissonanza psicologica della sua posizione: un uomo addestrato nelle arti della guerra e nella cura dei neonati, che ora serviva come un inserviente glorificato per un miliardario morente in un paese dove era un totale estraneo.

La tesi centrale dell’accusa, e un filo conduttore tirato pesantemente dal documentario, è la teoria della “sindrome dell’eroe”. Il film ricostruisce i presunti eventi con un distacco clinico che li rende ancora più strazianti. La narrazione vuole che Maher, sentendosi emarginato dalla gerarchia del personale infermieristico e insicuro nel suo impiego, abbia ordito un piano per dimostrare la sua indispensabilità. Avrebbe inscenato un’intrusione, un momento di pericolo dal quale avrebbe potuto salvare il suo datore di lavoro, guadagnandosi così la gratitudine eterna di Safra e una posizione cementata nella cerchia ristretta.

L’esecuzione di questo piano, come dettagliato nel film, fu una commedia degli errori che mutò in una tragedia degli orrori. Maher si sarebbe inflitto ferite da coltello sul proprio corpo — tagliandosi l’addome e la coscia per simulare una colluttazione — per poi appiccare un fuoco in un cestino della carta straccia per far scattare gli allarmi. Il documentario invita psicologi e criminologi a decostruire questo comportamento, dipingendo l’immagine di una mente che opera sotto un’illusione di controllo. Maher, il soldato esperto, non aveva tenuto conto della fisica del fuoco in un appartamento di lusso pieno di opulenza infiammabile.

Il film utilizza ricostruzioni per rappresentare la velocità con cui il piano si disintegrò. Il fuoco non fece solo fumo; ruggì. Gli “intrusi” che Maher sosteneva di combattere erano fantasmi della sua stessa creazione, eppure divennero la realtà determinante per la risposta di emergenza. Dicendo alla polizia che c’erano uomini armati nell’appartamento, Maher creò inavvertitamente un protocollo per situazione con ostaggi. La polizia, temendo una sparatoria, stabilì un perimetro. I vigili del fuoco furono trattenuti. Il documentario sostiene che Safra non fu ucciso solo dal fuoco, ma dalla menzogna.

Il bunker e l’asfissia

La sequenza più straziante del film è la ricostruzione delle ultime ore di Edmond Safra e della sua fedele infermiera, Vivian Torrente. L’ambientazione è il bagno di sicurezza dell’attico, uno spazio progettato per essere un santuario contro gli assassini ma che divenne una camera a gas. Il documentario sottolinea l’ironia tragica della paranoia di Safra. Le porte blindate, le pareti rinforzate, i complessi meccanismi di chiusura — tutti progettati per tenere le minacce fuori — finirono per tenere fuori i soccorsi e intrappolare le vittime dentro.

Apprendiamo attraverso la testimonianza di esperti e la lettura dei rapporti dell’autopsia che la morte non arrivò dalle fiamme, ma per asfissia. Il film si sofferma sulla linea temporale, un conto alla rovescia al rallentatore verso la tragedia. Mentre la polizia transennava la strada sottostante e il fuoco infuriava nel salone, Safra e Torrente sedevano nell’oscurità del bagno, soffocando a causa dei fumi tossici. Il documentario rivela le comunicazioni che ebbero luogo — Safra, terrorizzato e convinto dalla storia degli intrusi di Maher, rifiutò di sbloccare la porta anche quando il salvataggio divenne finalmente possibile. Morì prigioniero del suo stesso apparato di sicurezza.

La morte di Vivian Torrente è trattata con una solennità che bilancia l’attenzione sul miliardario. Lei è il danno collaterale della narrazione, una donna che faceva il suo lavoro e che fu travolta dallo psicodramma del suo collega. Il film contrasta la sua lealtà — rimanendo con il paziente fino alla fine — con il tradimento rappresentato da Maher. È un duro promemoria delle dinamiche di classe in gioco: il miliardario, la serva leale e l’intruso che li distrusse entrambi.

L’ombra dell’Orso: la connessione russa

Mentre il verdetto ufficiale attribuisce la colpa all’infermiere, Murder in Monaco: il caso Edmond Safra è ben consapevole che la storia non può essere raccontata senza affrontare gli spettri geopolitici che ossessionavano gli ultimi anni di Safra. Il documentario dedica una parte sostanziale della sua durata alla “Teoria Russa”, una contro-narrazione che suggerisce che Maher fosse o un capro espiatorio o una pedina in un gioco molto più grande. Questa sezione del film passa dal thriller domestico al dramma di spionaggio internazionale, collegando i punti tra l’attico a Monaco e i corridoi del Cremlino.

La banca di Safra era profondamente radicata nel mercato russo durante gli anni caotici e senza legge della transizione post-sovietica. Il film dettaglia i meccanismi dei mercati obbligazionari e il gioco lucrativo e pericoloso del debito russo. Ancora più criticamente, evidenzia la cooperazione di Safra con l’FBI riguardo a un massiccio scandalo di riciclaggio di denaro che coinvolgeva il Fondo Monetario Internazionale e alti funzionari russi. Il documentario postula che, assistendo l’intelligence occidentale, Safra avesse violato l’omertà degli oligarchi.

Gli intervistati, tra cui giornalisti investigativi ed ex ufficiali dell’intelligence, speculano sul tempismo. L’incendio scoppiò proprio mentre la vendita della banca si stava finalizzando e la cooperazione con l’FBI si intensificava. La narrazione dell'”eroe fallito” era una comoda copertura per un omicidio su commissione? Il film nota l’anomalia dell’assenza delle guardie di sicurezza quella notte — un dettaglio su cui i teorici della cospirazione fanno leva. Come poteva l’uomo più protetto di Monaco essere lasciato incustodito nel momento esatto in cui scoppiava un incendio?

Il documentario traccia anche una linea verso Hermitage Capital Management, il fondo che Safra co-fondò con Bill Browder. Hermitage sarebbe poi diventato l’epicentro del caso Magnitsky, un conflitto che ha definito la moderna relazione antagonistica tra la Russia e l’Occidente. Collocando Safra in questa discendenza, il film suggerisce che la sua morte potrebbe essere stata la salva di apertura in una guerra che viene combattuta ancora oggi. Sebbene il regista non avalli esplicitamente la teoria dell’assassinio, l’inclusione di questi dettagli crea un’ombra di dubbio che aleggia sull’intera narrazione.

Il veleno della socialite

Nessuna esplorazione di uno scandalo monegasco sarebbe completa senza il coro dell’alta società che lo abita, e Murder in Monaco: il caso Edmond Safra trova la sua voce più acerba in Lady Colin Campbell. La socialite e autrice funge da coro greco di una sola persona, fornendo un commento che è tanto caustico quanto rivelatore. La sua inclusione nel documentario è un colpo da maestro del casting, portando sullo schermo i risentimenti latenti dei salotti della Riviera.

L’animosità di Lady Campbell verso la vedova di Safra, Lily, è palpabile e riceve ampio spazio sullo schermo. Il film approfondisce la controversia che circonda il romanzo di Campbell, Empress Bianca, che fu ampiamente interpretato come un romanzo a chiave appena velato e poco lusinghiero su Lily Safra. Il libro fu legalmente soppresso e mandato al macero, un fatto che Campbell racconta con un misto di sfida e vittimismo. Nel documentario, si riferisce alla vedova con epiteti che sono scioccanti nella loro franchezza, descrivendola come una “mantide religiosa” e gettando ombre sul suo carattere che rasentano la diffamazione, prima di abbandonare l’intervista in un momento di rabbia teatrale.

Questo segmento del film serve a un duplice scopo. Fornisce l’elemento “tabloid” che alimenta il fascino pubblico per i super-ricchi, ma espone anche la natura insulare e viziosa del circolo sociale in cui si muovevano i Safra. Dipinge un mondo in cui le alleanze sono transazionali e dove la tragedia viene metabolizzata come pettegolezzo. Il documentario non convalida necessariamente le opinioni di Campbell, ma le usa per dare consistenza all’ambiente — un luogo dove tutti osservano tutti e dove i coltelli sono sempre affilati, metaforicamente se non letteralmente.

Il processo e le conseguenze

L’atto finale del film copre la risoluzione legale, per come è stata. Il processo a Ted Maher è dipinto come un affare rapido, quasi sbrigativo, caratteristico di un principato che preferisce che i suoi scandali vengano sepolti velocemente. Il documentario critica il processo giudiziario monegasco, notando la pressione per chiudere il caso e ripristinare l’immagine di sicurezza che è il fondamento dell’economia locale. La confessione di Maher — ritrattata, poi reiterata, poi ritrattata di nuovo — viene esaminata. Era l’ammissione di un uomo colpevole o la capitolazione di uno smarrito sotto costrizione?

La sentenza emessa — un decennio in prigione — viene presentata come un compromesso che non ha soddisfatto nessuno. Per i teorici della cospirazione, è stata una copertura; per l’accusa, è stata giustizia fatta. Il film segue il viaggio di Maher dopo l’incarcerazione, inclusi i suoi tentativi di ripulire il suo nome e la pubblicazione delle sue memorie. La sua attuale posizione, secondo cui è stato incastrato e gli intrusi erano reali, riceve spazio, sebbene il peso delle prove forensi presentate in precedenza renda la tesi difficile da vendere al pubblico.

Il documentario tocca anche la narrazione dell'”evasione”, facendo riferimento all’audace, seppur in definitiva futile, tentativo di Maher di fuggire dalla custodia — un dettaglio che aggiunge un ulteriore strato di assurdità cinematografica alla storia. Rafforza l’immagine di Maher come un uomo che vive in un film della sua stessa mente, un eroe d’azione in un mondo che richiedeva un infermiere silenzioso.

Maestria cinematografica e verdetto critico

Tecnicamente, Murder in Monaco: il caso Edmond Safra è un’aggiunta raffinata al genere true crime. La cinematografia cattura la dualità dell’ambientazione: la serenità azzurra del giorno mediterraneo e il mistero illuminato al neon della notte monegasca. La colonna sonora è adeguatamente tesa, utilizzando crescendo orchestrali e fioriture di violino per sottolineare la natura operistica della tragedia. Il regista, Hodges Usry, riesce a bilanciare gli elementi sensazionalistici con una rigorosa aderenza alla cronologia, impedendo al film di scivolare nella pura speculazione.

Tuttavia, la più grande forza del film è il suo rifiuto di fornire una conclusione netta. Riconosce che nell’intersezione tra immensa ricchezza, spionaggio internazionale e psicologia umana, la verità è spesso un caleidoscopio. La storia ufficiale — l’infermiere, il fuoco, l’errore — è plausibile, ma l’alternativa — le spie, la mafia, il sicario — è seducente. Il documentario lascia lo spettatore nello spazio scomodo tra le due, suggerendo che in un luogo come Monaco, la verità è semplicemente qualsiasi versione degli eventi su cui le persone più potenti concordano.

Il film è una testimonianza del fatto che il denaro può comprare i sistemi di sicurezza più avanzati al mondo, ma non può comprare la sicurezza dalla natura umana. Ritrae Edmond Safra non solo come vittima di un incendio, ma come una vittima del mondo stesso che ha contribuito a creare — un mondo di segreti, beni a leva finanziaria e relazioni transazionali. Mentre scorrono i titoli di coda, l’immagine dell’attico della Belle Époque, bruciato e annerito contro lo skyline immacolato, serve come un inquietante memento mori.

Murder in Monaco: il caso Edmond Safra è un film denso, intricato e profondamente inquietante che richiede attenzione non solo per il crimine su cui indaga, ma per il mondo che rivela. È un mondo in cui la posta in gioco è infinita e dove una singola scintilla può bruciare un impero.

Murder in Monaco: il caso Edmond Safra debutterà su Netflix il 17 dicembre.

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