Un’artista in costante movimento
Definire Tilda Swinton significa abbracciare una contraddizione. È un’artista in perpetuo movimento, una forza inclassificabile la cui carriera resiste alle retrospettive perché non è mai veramente relegata al passato.
Questo concetto è forse racchiuso al meglio nel titolo della sua grande mostra all’Eye Filmmuseum di Amsterdam, “Ongoing” (In corso). Non è uno sguardo al passato, ma una costellazione vivente delle partnership creative che alimentano il suo lavoro, una testimonianza di un processo mai concluso. Nel 2026, tornerà sul palcoscenico per la prima volta in oltre tre decenni, riprendendo il suo ruolo del 1988 in Man to Man per il 70° anniversario del Royal Court. Un altro gesto proiettato al futuro, che sfida le convenzioni della traiettoria di carriera di un’interprete veterana.
Tilda Swinton è vincitrice di un Oscar, icona di moda, performance artist e star di blockbuster, eppure nessuna di queste etichette è sufficiente. Preferisce il termine “performer” a quello di “attrice”, una distinzione sottile ma cruciale che include il suo lavoro improvvisativo, autoriale e autobiografico. Acclamata dal New York Times come una delle più grandi attrici del XXI secolo, ha costruito una carriera su fondamenta di paradosso: l’aristocratica diventata comunista, la musa d’avanguardia che ha conquistato Hollywood e la star globale che rimane ferocemente radicata nelle Highlands scozzesi. Questa è la storia di come Katherine Matilda Swinton abbia plasmato un’identità non dalla stirpe immutabile in cui è nata, ma da un impegno lungo una vita verso la collaborazione, la trasformazione e la convinzione radicale che il sé non sia una destinazione, ma un viaggio continuo e in divenire.
Il titolo della sua mostra è più di un nome; è la sua tesi artistica, che suggerisce un’identità radicata nel processo di creazione e connessione, non in una collezione statica di successi passati.
L’aristocratica riluttante
Il peso del lignaggio
Per comprendere l’incessante ricerca di trasformazione di Tilda Swinton, bisogna prima afferrare l’immutabilità delle sue origini. Nacque a Londra il 5 novembre 1960, in una patrizia famiglia militare scozzese la cui discendenza è una delle più antiche della Scozia, tracciabile per 35 generazioni fino al IX secolo. Il suo più antico antenato documentato giurò fedeltà ad Alfredo il Grande nell’886. Suo padre, il Maggiore Generale Sir John Swinton, era l’ex capo della Household Division della Regina e Lord Luogotenente del Berwickshire, una figura che incarnava secoli di tradizione, establishment e ciò che la stessa Swinton definisce “la classe possidente”. Era un mondo di immenso peso storico, un copione già scritto di conformità e aspettative.
Il rifiuto di questa eredità da parte della Swinton è centrale per la sua identità. Di fronte alla storia antica della sua famiglia, ha commentato: “Tutte le famiglie sono antiche. È solo che la mia ha vissuto nello stesso posto per molto tempo e si è trovata a scrivere le cose”. Questa affermazione è un deliberato atto di demistificazione, un rifiuto di essere definita dal passato. Fin da giovane, si è distinta per non aver recitato la parte, scherzando sul fatto che i suoi genitori si resero presto conto che “non avrebbe sposato un duca”.
L’educazione come ribellione
La sua istruzione formale divenne la prima arena di questa ribellione. All’età di 10 anni, fu mandata in collegio alla West Heath Girls’ School, dove una delle sue compagne di classe era la futura Principessa del Galles, Diana Spencer. Detestò quell’esperienza, descrivendo il collegio come “brutale” e “un modo molto efficiente per tenerti a distanza dalla vita”. Fu a West Heath che un momento formativo cristallizzò la sua opposizione all’ordine patriarcale.
Dopo aver sentito il preside della scuola dei suoi fratelli dire ai ragazzi: “Voi siete i leader di domani”, tornò alla sua scuola per sentirsi dire: “Voi siete le mogli dei leader di domani”. Questo definì nettamente il ruolo limitato e di genere prescritto per lei, un ruolo che avrebbe passato la vita a smantellare.
Cambridge e il risveglio politico
Il suo risveglio intellettuale e politico avvenne all’Università di Cambridge, dove studiò Scienze Sociali e Politiche e Letteratura Inglese a New Hall, laureandosi nel 1983. Con un atto definitivo di ribellione contro le sue origini aristocratiche, si iscrisse al Partito Comunista. Cambridge fu anche il luogo in cui si immerse nel teatro sperimentale, partecipando con entusiasmo a produzioni studentesche che avrebbero gettato le basi per la sua carriera di interprete.
Dopo l’università, trascorse un breve periodo di un anno, dal 1984 al 1985, presso la prestigiosa Royal Shakespeare Company. Tuttavia, si trovò rapidamente in disaccordo con l’ethos della compagnia, che percepiva come dominato dagli uomini, e da allora ha espresso un profondo disinteresse per le convenzioni del teatro dal vivo, trovandolo “davvero noioso”. Il suo percorso non sarebbe stato quello di interpretare i classici sul palco, ma di forgiare un ruolo nuovo e non scritto per sé stessa nel mondo della performance.
La sua intera figura artistica può essere vista come una reazione diretta e permanente contro l’identità fissa in cui è nata. La sua fascinazione per la fluidità e la fuga dal determinismo storico non è un interesse astratto, ma un progetto profondamente personale di auto-creazione, una sovversione della sua stessa storia d’origine.
Gli anni di Jarman: forgiare un’identità
La partnership fondante
Dopo aver lasciato la RSC, Swinton trovò la sua casa artistica non in un’istituzione, ma in una persona. Nel 1985 incontrò il regista d’avanguardia, artista e attivista per i diritti gay Derek Jarman, un incontro che avrebbe definito il primo capitolo della sua carriera e le avrebbe instillato un quadro etico e artistico che perdura ancora oggi. La loro collaborazione di nove anni iniziò con il suo debutto cinematografico in Caravaggio (1986) e si estese per otto film, tra cui l’opera di denuncia politica The Last of England (1988), il dramma storico queer Edward II (1991) e il biopic filosofico Wittgenstein (1993).
L’ethos di Jarman
Lavorare con Jarman fu la scuola di cinema della Swinton. Egli non operava con la struttura gerarchica di un set cinematografico tradizionale; promuoveva invece un ambiente collettivo e collaborativo in cui la Swinton era fin dall’inizio una co-autrice fidata. Questa esperienza ha plasmato la sua preferenza perenne nel creare lavori con amici, un processo che descrive come alimentato dalla convinzione che “la relazione sia la batteria”. Il lavoro di Jarman era anche ferocemente politico, un confronto artistico diretto con le correnti repressive e omofobe della Gran Bretagna di Margaret Thatcher, in particolare la Sezione 28, una legge che proibiva la “promozione dell’omosessualità”. Le insegnò che l’arte poteva essere una forma di attivismo e che un regista poteva attrarre a sé il centro culturale anziché inseguirlo. Questo ethos collaborativo, costruito sulla fiducia e sulla paternità condivisa, divenne il suo DNA operativo, un modello che avrebbe cercato di replicare per tutta la sua carriera, sfidando silenziosamente le tradizionali dinamiche di potere di Hollywood.
Un punto di svolta: lutto e reinvenzione
La partnership si concluse tragicamente con la morte di Jarman nel 1994 per una malattia correlata all’AIDS. Fu un periodo di profonda perdita per la Swinton; a 33 anni, aveva partecipato ai funerali di 43 amici morti di AIDS. La morte del suo principale collaboratore la lasciò a un bivio creativo, incerta se fosse possibile lavorare di nuovo con qualcuno allo stesso modo.
La sua risposta non fu cercare un altro regista, ma inventare una nuova forma di performance. Questo portò alla creazione di The Maybe, un’opera d’arte vivente in cui giace addormentata, apparentemente vulnerabile, all’interno di una teca di vetro in una galleria pubblica. Eseguita per la prima volta alla Serpentine Gallery di Londra nel 1995, l’opera era una risposta diretta al lutto dell’epidemia di AIDS. Stanca di sedere accanto ai suoi amici morenti, voleva “dare un corpo vivo, sano e addormentato a uno spazio pubblico”. Fu un’esplorazione di una presenza “non recitata ma viva”, un gesto cinematografico in cui il pubblico poteva scegliere la propria distanza, scrutandola da vicino o osservandola da lontano come una figura su uno schermo. The Maybe segnò la sua reinvenzione, una svolta verso una forma di performance più personale e autobiografica che avrebbe continuato a informare il suo lavoro per decenni.
Orlando e l’ideale androgino
Il successo internazionale
Se gli anni di Jarman hanno forgiato la sua identità artistica, è stato il film Orlando di Sally Potter del 1992 a proiettarla nel mondo. Basato sul romanzo di Virginia Woolf del 1928, il film racconta la storia di un nobile inglese che vive per 400 anni senza invecchiare e, a metà strada, si trasforma in una donna. Il ruolo era un veicolo perfetto per la presenza ultraterrena e androgina della Swinton, e la sua straordinaria interpretazione la catapultò alla fama internazionale.
Incarnare la fluidità
Orlando fu più di un ruolo; fu l’espressione ultima del progetto personale e artistico della Swinton. Il viaggio del personaggio è una fuga letterale dai confini del tempo, della storia e dell’eredità di genere — le stesse forze che avevano definito la sua educazione aristocratica. Swinton interpretò sia l’Orlando maschile che quello femminile con una comprensione innata dell’identità centrale del personaggio, che rimane costante nonostante le trasformazioni esterne.
Il film culmina in uno dei suoi momenti più iconici sullo schermo: nel presente, Orlando siede sotto un albero e fissa dritto in camera per 20 secondi interi, il suo sguardo enigmatico che regge l’intero peso di una saga di 400 anni di cambiamento e sopravvivenza. Il film fu un successo di critica e pubblico, lodato come un adattamento audace, intelligente e visivamente magnifico, che anticipava di decenni le conversazioni contemporanee sull’identità di genere.
La nascita di un’icona di stile
L’estetica del film e la sua profonda esplorazione dell’identità cementarono lo status della Swinton come icona culturale e di moda. La sua bellezza sorprendente e non convenzionale e il suo rifiuto della femminilità tradizionale la resero una musa per i designer d’avanguardia. Viktor & Rolf basarono notoriamente la loro intera collezione Autunno 2003 su di lei, mandando in passerella un esercito di sosia della Swinton. Ha coltivato relazioni durature e profondamente personali con stilisti, in particolare Haider Ackermann, sentendosi “in compagnia” dei suoi abiti, così come con maison come Lanvin e Chanel. Il suo senso della moda, come la sua recitazione, è una forma di performance. Ha dichiarato di essere stata più influenzata dai tagli sartoriali netti e dalle finiture ricamate delle uniformi militari di suo padre e dal glamour androgino di David Bowie che dai convenzionali abiti da sera. Orlando fu il momento in cui la sua filosofia personale e la sua immagine pubblica si fusero in un’unica, potente dichiarazione.
Il successo del film convalidò il suo intero progetto anti-establishment e sovversivo rispetto al genere, garantendole il capitale culturale per costruire una carriera interamente alle sue inflessibili condizioni.
Conquistare Hollywood alle sue condizioni
Un ingresso strategico
Dopo il successo di Orlando, Tilda Swinton iniziò una navigazione attenta e strategica nel cinema mainstream. Ruoli in film come The Beach (2000) e Vanilla Sky (2001) la presentarono a un pubblico più vasto, ma non si trattò di “svendersi”. Fu piuttosto un’espansione della sua tela artistica, un esperimento nell’applicare la sua sensibilità unica alle produzioni su larga scala di Hollywood.
L’anomalia del blockbuster
Le sue incursioni nelle grandi franchise dimostrarono una notevole capacità di mantenere la sua integrità artistica all’interno delle strutture più commerciali. Nel ruolo di Jadis, la Strega Bianca nella serie Le cronache di Narnia (2005-2010), portò una regalità glaciale e genuinamente inquietante a un’amata fantasia per bambini, creando una cattiva che era sia terrificante che ipnotica. Successivamente, entrò nel Marvel Cinematic Universe, assumendo il ruolo dell’Antico in Doctor Strange (2016) e Avengers: Endgame (2019). Con un casting sovversivo, interpretò un personaggio tradizionalmente raffigurato come un anziano uomo tibetano, infondendo nello stregone una compostezza trascendente e minimalista e un’autorità tranquilla e rilassata che sfidava lo stereotipo del blockbuster del maestro onnipotente. Tratta questi progetti commerciali come esperimenti, vedendo gli archetipi consolidati non come vincoli ma come modelli da riempire e alterare sottilmente dall’interno, contrabbandando le sue sensibilità d’avanguardia sui più grandi schermi del mondo.
La vittoria dell’Oscar
Il culmine della sua riuscita integrazione nell’ecosistema di Hollywood arrivò nel 2008, all’80ª edizione degli Academy Awards. Tilda Swinton vinse l’Oscar come Miglior Attrice Non Protagonista per il suo ruolo di Karen Crowder, un’avvocatessa aziendale spietata e sull’orlo del collasso, nel thriller legale di Tony Gilroy Michael Clayton (2007). La sua performance fu lodata come “sottilmente agghiacciante”, un ritratto magistrale di una dirigente amorale consumata dall’ambizione e dal panico. La stessa Swinton trovò il ruolo insolito per il suo naturalismo, un allontanamento dai suoi lavori più stilizzati. La vittoria fu un momento cruciale, che consolidò il suo status di una delle interpreti più rispettate e versatili del settore, capace di muoversi senza soluzione di continuità tra l’arthouse e il mainstream, eccellendo in entrambi senza compromessi.
L’arte della trasformazione
Maestra del travestimento
La carriera di Tilda Swinton può essere letta come una lunga performance artistica sul tema dell’identità stessa. È una vera camaleonte, ma le sue trasformazioni sono più che semplici trucco e costumi; sono profondi atti di incarnazione che sfidano le supposizioni del pubblico su genere, età e umanità. Ogni travestimento radicale è una dimostrazione pratica della sua convinzione artistica fondamentale nell’inesistenza di un sé fisso, dimostrando che l’identità è fluida e performativa.
Casi di studio sulla trasformazione
Diversi ruoli si distinguono come apici del suo potere trasformativo. Nel thriller distopico di Bong Joon-ho Snowpiercer (2013), è irriconoscibile nei panni del Ministro Mason, una caricatura grottesca del potere autoritario. Con un naso suino, grandi denti prostetici, una parrucca severa e finte medaglie di guerra, Mason è una figura buffonesca e patetica, un misto di mostri storici come Margaret Thatcher e Benito Mussolini. L’intrinseca ridicolaggine del suo aspetto è la chiave del personaggio, un altoparlante ambulante per un regime brutale il cui potere è fragile quanto assurdo è il suo aspetto.
Per Grand Budapest Hotel di Wes Anderson (2014), si è sottoposta a cinque ore di trucco ogni giorno per diventare Madame D., una ricca vedova di 84 anni. Nonostante abbia pochissimo tempo sullo schermo, la sua performance melodrammatica e appiccicosa è assolutamente memorabile, mettendo in moto l’intera trama folle del film e simboleggiando il mondo perduto dell’anteguerra che il film commemora.
Forse la sua trasformazione più radicale è avvenuta nel remake di Suspiria di Luca Guadagnino del 2018. In un’impresa di stratificazione performativa, non solo ha interpretato la misteriosa direttrice di danza Madame Blanc, ma anche, segretamente, l’anziano psichiatra maschio Dr. Jozef Klemperer, un ruolo inizialmente accreditato a un attore fittizio di nome Lutz Ebersdorf. Il suo impegno è stato assoluto; il truccatore Mark Coulier ha rivelato che indossava un “pesante set di genitali” sotto il costume per sentire e incarnare appieno il personaggio maschile. Sebbene il film abbia diviso la critica, la doppia performance della Swinton è stata una dimostrazione mozzafiato della sua impavida dedizione a dissolvere i confini dell’identità.
Il nucleo psicologico: …e ora parliamo di Kevin
Le trasformazioni della Swinton non sono solo fisiche. Nell’angosciante dramma psicologico di Lynne Ramsay …e ora parliamo di Kevin (2011), ha offerto una delle interpretazioni più acclamate della sua carriera nel ruolo di Eva Khatchadourian, la madre di un figlio adolescente che commette una strage a scuola. Il film è raccontato interamente dalla prospettiva frammentata e affranta dal dolore di Eva, e la performance della Swinton è un’esplorazione impavida dell’ambivalenza materna, del senso di colpa e di un amore duraturo e inspiegabile. È un ritratto psicologico straziante che le ha richiesto di essere sullo schermo per quasi ogni momento del film, portandone l’immenso peso emotivo. Il ruolo le è valso nomination ai BAFTA e ai Golden Globe e ha consolidato la sua reputazione di attrice dal coraggio e dalla profondità emotiva impareggiabili.
Una costellazione di collaboratori
Oltre Jarman
Dopo la morte di Derek Jarman, Tilda Swinton non ha cercato un sostituto, ma ha iniziato a costruire una nuova costellazione di famiglie creative. Il suo modello di carriera, basato sulla lealtà e sulla collaborazione ripetuta, è una continuazione diretta dell’ethos che ha appreso nei suoi anni formativi. Ognuno dei suoi principali collaboratori le permette di esplorare una sfaccettatura diversa della sua identità artistica, rendendo la sua filmografia un dialogo curato con diverse menti artistiche piuttosto che una semplice successione di ruoli.
Wes Anderson (Lo stilista)
La sua collaborazione in cinque film con Wes Anderson — che spazia da Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore (2012), Grand Budapest Hotel (2014), L’isola dei cani (2018), The French Dispatch (2021) e Asteroid City (2023) — impegna la sua precisione e la sua ironia pungente. I suoi ruoli nei suoi mondi meticolosamente composti e teatrali sono spesso camei piccoli ma sempre di impatto. Che si tratti dell’austera “Servizi Sociali” in Moonrise Kingdom, della critica d’arte J.K.L. Berensen in The French Dispatch o della scienziata Dr. Hickenlooper in Asteroid City, porta una sensibilità incisiva che si fonde perfettamente con la forma di recitazione contenuta e stilizzata di Anderson.
Luca Guadagnino (Il sensualista)
La sua lunga e profondamente personale partnership con il regista italiano Luca Guadagnino attiva la sua sensualità e la sua profonda complessità emotiva. La loro relazione è iniziata con il suo debutto del 1999, The Protagonists, e da allora ha prodotto il lussureggiante dramma familiare Io sono l’amore (2009) — un progetto che hanno sviluppato insieme per oltre un decennio — il thriller erotico A Bigger Splash (2015) e l’epopea horror Suspiria (2018). Il loro lavoro insieme è una festa per i sensi, esplorando temi di desiderio, passione e identità su sfondi visivamente sontuosi, con la moda e l’estetica che giocano un ruolo narrativo centrale.
Jim Jarmusch (Il poeta della notte)
Con il regista indipendente americano Jim Jarmusch, la Swinton esplora la sua qualità filosofica e ultraterrena. Attraverso i loro quattro film insieme — Broken Flowers (2005), The Limits of Control (2009), I morti non muoiono (2019) e, in particolare, la storia d’amore vampiresca Solo gli amanti sopravvivono (2013) — hanno creato un corpus di opere definito da una sensibilità cool, notturna e poetica. Nel ruolo dell’antica e saggia vampira Eve in Solo gli amanti sopravvivono, Swinton incarna una grazia e un’intelligenza senza tempo, perfettamente a suo agio nel mondo malinconico e intriso di musica di Jarmusch, popolato da brillanti artisti-poeti-scienziati.
La donna dietro il personaggio
La vita nelle Highlands
Nonostante la sua presenza scenica ultraterrena, la vita di Tilda Swinton è deliberatamente ancorata alla realtà. Risiede a Nairn, una cittadina nella regione delle Highlands in Scozia, lontana dagli epicentri dell’industria cinematografica. Questa scelta non è una fuga dal suo lavoro, ma la base stessa che lo rende possibile. Le permette di proteggere la libertà creativa e lo spirito collaborativo che apprezza sopra ogni cosa.
Anche la sua vita personale ha sfidato le convenzioni. Ha avuto una relazione a lungo termine con l’artista e drammaturgo scozzese John Byrne, con cui ha avuto due gemelli, Honor Swinton Byrne e Xavier Swinton Byrne, nel 1997. Dal 2004, il suo partner è l’artista visivo tedesco-neozelandese Sandro Kopp. Ha descritto la loro sistemazione come una famiglia di amici felice e non convenzionale. Sua figlia, Honor Swinton Byrne, ha seguito le sue orme, recitando al fianco della madre negli acclamati film di Joanna Hogg The Souvenir e The Souvenir Part II. Queste scelte di vita riflettono la sua ambizione d’infanzia, che una volta confessò non essere la fama, ma semplicemente “una casa vicino al mare, un orto, bambini, alcuni cani e molti amici”, e l’opportunità di “creare lavori con gli amici”.
Arte oltre lo schermo
La pratica artistica della Swinton si estende ben oltre il cinema. La sua performance The Maybe è diventata un evento ricorrente e non annunciato, apparendo al Museo Barracco di Roma (1996) e al Museum of Modern Art di New York (2013) dopo il suo debutto a Londra. Si è anche impegnata in attività curatoriali, organizzando una mostra fotografica ispirata a Orlando presso la Aperture Foundation nel 2019. Le sue collaborazioni con lo storico della moda francese Olivier Saillard hanno dato vita a una serie di acclamate performance che utilizzano l’abbigliamento per esplorare la memoria e la storia. Queste attività non sono hobby, ma parti integranti di un progetto artistico olistico in cui i confini tra arte e vita sono deliberatamente offuscati.
Una sensibilità queer
Nel 2021, la Swinton ha chiarito di identificarsi come queer, spiegando che per lei il termine si riferisce alla sensibilità piuttosto che alla sessualità. Questa identificazione è un’appropriata sintesi del lavoro della sua vita. Essere queer, in questo senso, significa esistere al di fuori di categorie rigide, mettere in discussione le norme e abbracciare la fluidità come stato dell’essere. È una sensibilità che ha informato ogni aspetto della sua carriera, dalla sua estetica androgina e i ruoli che sovvertono il genere, ai suoi metodi collaborativi e alla sua sfida al tradizionale star system.
La conversazione “in corso”: l’arte come pratica vivente
La filosofia della Swinton, basata sulla collaborazione e la creazione continua, trova la sua espressione più completa in “Tilda Swinton – Ongoing”, una grande mostra che si terrà da settembre 2025 a febbraio 2026 all’Eye Filmmuseum di Amsterdam. Descritta non come una retrospettiva ma come una “costellazione vivente” delle sue idee e delle sue amicizie, la mostra si concentra sul suo ruolo attivo di co-autrice.
Swinton ha invitato otto dei suoi partner artistici più stretti a creare nuove opere e a presentare lavori esistenti. Tra i collaboratori figurano Pedro Almodóvar, Luca Guadagnino, Joanna Hogg, Derek Jarman, Jim Jarmusch, Olivier Saillard, Tim Walker e Apichatpong Weerasethakul. Le opere sono profondamente personali ed esplorano i temi della memoria, della natura e dell’amicizia. Tra i pezzi forti figurano una ricostruzione multimediale del suo appartamento londinese degli anni ’80 con Joanna Hogg, un nuovo cortometraggio e una scultura di Luca Guadagnino, e una serie di foto di Tim Walker scattate nella sua casa di famiglia in Scozia. In una performance di più giorni con Olivier Saillard, Tilda Swinton darà vita ad abiti della sua collezione personale, costumi di scena e cimeli di famiglia. La mostra è un’incarnazione fisica della sua convinzione che l’arte non sia un prodotto statico, ma una conversazione viva e pulsante tra amici fidati.
Eternamente “in corso”
Tilda Swinton è un’artista definita dal paradosso: l’aristocratica che ha abbracciato la ribellione, la musa d’avanguardia diventata una star di blockbuster, l’icona pubblica che vive una vita ferocemente privata. La sua carriera è una potente testimonianza di una visione senza compromessi, che dimostra come sia possibile navigare ai vertici dell’industria cinematografica senza sacrificare un briciolo di integrità artistica.
Ha costruito il lavoro della sua vita non su un’ambizione singolare, ma su una costellazione di relazioni creative profonde e durature. Mentre si prepara per progetti come la mostra “Ongoing” e il suo ritorno sul palcoscenico londinese nel 2026 per riprendere il suo ruolo del 1988 in Man to Man, è chiaro che la sua carriera non ha un atto finale. C’è solo il processo continuo di esplorazione, conversazione e reinvenzione.
L’eredità di Tilda Swinton non risiede solo nei personaggi che ha interpretato, ma nel modo rivoluzionario in cui ha interpretato il gioco. Non ha solo avuto successo all’interno dell’industria cinematografica; ha fondamentalmente ampliato la nostra comprensione di ciò che un’interprete può essere, consolidando il suo posto come una delle artiste più singolari e influenti della sua generazione.

