Un nuovo documentario Netflix racconta il clamoroso fallimento di quello che era destinato a diventare il prossimo grande successo della reality TV, svelando una storia in cui il confine tra intrattenimento basato su crimini veri e criminalità reale si è completamente dissolto. Il film, intitolato Trainwreck: Mamme investigatrici, fa parte dell’antologia Trainwreck del servizio di streaming, una serie dedicata ad analizzare fenomeni virali e fiaschi mediatici. Questa puntata indaga su una serie pianificata nel 2010 per il canale Lifetime, incentrata su un’agenzia di investigazioni private composta da madri di periferia, una produzione che è implosa quando si è scoperto che era una facciata per una vasta impresa criminale.
Il documentario svela come un concetto ideato per una televisione positiva e di emancipazione sia stato sistematicamente corrotto dall’interno. Lo show originale doveva seguire un gruppo di mamme detective autodidatte che si destreggiavano tra gli impegni scolastici dei figli e appostamenti ad alto rischio. Tuttavia, come descrive il documentario, le indagini mostrate sullo schermo hanno iniziato a fallire, le piste a svanire e un informatore ha infine rivelato che l’intera agenzia era una copertura per il traffico di droga, con il possibile aiuto di un poliziotto corrotto. Questo film rivisita i caotici eventi per scoprire una verità molto più strana della finzione destinata agli schermi televisivi.

La premessa ideale che non si è mai realizzata
Il documentario ricostruisce meticolosamente la facciata patinata e mediaticamente perfetta del reality show mai andato in onda, che doveva chiamarsi Soccer Moms, Private Eyes. Nel 2010, il canale Lifetime commissionò la serie, credendo in un’idea che sembrava una svolta intelligente e commerciabile della crescente mania per il true crime. La premessa era semplice ma potente: un’agenzia di investigazioni private nella Baia di San Francisco, composta interamente da madri di periferia. Al centro di tutto c’era Chris Butler, un carismatico ex poliziotto che si presentava come un imprenditore visionario. Sosteneva di aver lasciato le forze dell’ordine perché i suoi superiori non riuscivano a comprendere le sue tattiche avanzate e orientate ai risultati.
La strategia di pubbliche relazioni di Butler si basava su una narrazione di emancipazione. In apparizioni mediatiche di alto profilo, come nel programma Dr. Phil, articolava la sua “formula segreta”, sostenendo che le madri possedessero un’innata abilità per il lavoro investigativo. Affermava che fossero naturalmente multitasking, ascoltatrici pazienti e dotate di un acuto intuito per scoprire le bugie, rendendole investigatrici uniche ed efficaci. Questa narrazione era un sofisticato scudo sociale. Mascherando la sua operazione dietro l’archetipo rassicurante della “mamma di periferia”, Butler creò un’immagine potente che deviava i sospetti. Prima ancora che venisse girato un solo episodio, la sua macchina di PR andò a pieno regime, ottenendo articoli sulla rivista People e al Today show. Le mamme vennero fotografate per sembrare una versione reale delle Charlie’s Angels, creando un’aura telegenica che i media consumarono avidamente. Questa storia attentamente costruita generò una stampa estremamente positiva, fornendo la copertura perfetta per le attività criminali che si svolgevano sotto gli occhi di tutti.
Quando le telecamere si accesero, la facciata si incrinò
Come descrive Trainwreck: Mamme investigatrici, nel momento in cui iniziò la produzione televisiva, l’intera impresa cominciò a sgretolarsi. Il contenuto principale dello show – le indagini stesse – iniziò a fallire con una costanza sconcertante. Il documentario mostra un modello di collasso sistematico: piste promettenti si raffreddavano improvvisamente, missioni di sorveglianza finivano nel nulla e interviste chiave venivano inspiegabilmente cancellate. La troupe di produzione, ingaggiata per catturare un avvincente dramma criminale, si ritrovò solo con vicoli ciechi. Sul set, iniziarono a circolare voci di sabotaggio tra i membri della troupe, che non riuscivano a capire perché la premessa stessa del loro show venisse minata in modo così efficace.
Questo caos sul set era un sintomo diretto della contraddizione fondamentale al centro del progetto. Una produzione di reality TV richiede risultati di successo e filmabili per creare dramma per gli spettatori. Tuttavia, un’impresa criminale mascherata da agenzia investigativa richiede che le sue “indagini” – che erano facciate per altri schemi – rimangano irrisolte per proteggere la vera operazione. Il “sabotaggio” a cui la troupe assistette era semplicemente la realtà criminale dell’attività che si scontrava con le esigenze logistiche della televisione. Il punto di svolta arrivò quando un informatore, sotto lo pseudonimo di “Rutherford”, contattò i giornalisti. Questa fonte interna svelò l’intera operazione, rivelando l’accusa centrale: l’agenzia investigativa non era un’azienda legittima, ma una copertura per un’operazione di traffico di droga gestita dal suo capo, Chris Butler.
Smascherare la vera operazione: una guerra criminale su due fronti
Il documentario si sposta quindi ad analizzare i complessi schemi criminali che costituivano la vera attività dell’agenzia. La cospirazione principale coinvolgeva una partnership tra Chris Butler e Norm Wielsch, comandante della squadra antidroga della contea di Contra Costa. La loro operazione era audace: prendevano narcotici sequestrati come prova dalla polizia e li rivendevano per strada. Questo giro di droga era il motore finanziario che alimentava le ambizioni di Butler, e il documentario spiega che i profitti erano destinati a finanziare il reality show che lo avrebbe reso una star.
Ma il traffico di droga era solo una parte dell’attività. Il film espone anche una seconda, più sordida, attività criminale incentrata sull’incastrare le persone. Butler impiegava una squadra di giovani donne attraenti, definite “esche” o “operatrici”, il cui compito era facilitare operazioni di trappola. Queste operazioni miravano spesso ai mariti di donne che avevano ingaggiato l’agenzia per pratiche di divorzio. Un’esca veniva mandata in un bar per flirtare con il bersaglio, incoraggiarlo a bere pesantemente e poi suggerirgli di andare in un altro posto. Un poliziotto, avvisato da Butler, aspettava nelle vicinanze per fermare l’uomo e arrestarlo per guida in stato di ebbrezza. Questo arresto architettato veniva poi usato come potente leva contro il marito in tribunale. Il documentario esplora i dubbi confini legali e morali superati in queste operazioni, descrivendo come alle operatrici venisse talvolta ordinato di fare qualsiasi cosa per completare la missione. Questi due schemi formavano un ecosistema criminale simbiotico. Le trappole fornivano il lavoro investigativo “legittimo” che fungeva da copertura per l’agenzia, mentre i soldi della droga finanziavano l’intera operazione.
Una storia più strana della finzione, quindici anni dopo
Trainwreck: Mamme investigatrici si presenta come il resoconto definitivo di questa bizzarra saga, ricostruendo ciò che il suo regista, Phil Bowman, definisce “il più grande reality show mai andato in onda”. Il film è una coproduzione tra BBH Entertainment e RAW, quest’ultima una casa di produzione con un notevole pedigree nel genere true crime. RAW è l’acclamata società dietro una serie di influenti documentari Netflix, tra cui Il truffatore di Tinder, Giù le mani dai gatti: Caccia a un killer online e American Nightmare: Rapimento in California, oltre al film vincitore del BAFTA L’impostore – The Imposter. Il loro coinvolgimento segnala un alto livello di abilità narrativa e rigore investigativo.
In definitiva, il documentario racconta una storia singolarmente moderna che si colloca nella strana intersezione tra l’ambizione della reality TV e gravi crimini federali. Rivela come un concetto basato su una premessa di emancipazione femminile sia stato distorto per diventare il veicolo di una cospirazione pericolosa e cinica. La storia di Trainwreck: Mamme investigatrici funziona come un meta-commento sull’ossessione culturale sia per la reality TV che per il true crime. Un uomo ha tentato di finanziare un reality show sulla sua finta agenzia investigativa commettendo crimini reali, solo perché l’intero disastro diventasse oggetto di un vero documentario. Questo ciclo autoreferenziale, in cui i confini tra performance, criminalità e media si dissolvono completamente, è ciò che rende la storia così avvincente. L’esistenza del documentario chiude il cerchio, trasformando finalmente il caotico fallimento iniziale in un prodotto di intrattenimento raffinato, proprio ciò che il suo ideatore aveva inseguito per tutto il tempo, anche se in una forma che non avrebbe mai potuto immaginare.
Dove guardare “Trainwreck: Mamme investigatrici”