Netflix presenta un documentario sulla storia che ha ispirato una delle sue serie di maggior successo, Rabo de Peixe, una comunità di pescatori delle Azzorre che, un giorno, ricevette dal mare un tesoro inaspettato: migliaia di pacchi avvolti che arrivavano sulla spiaggia.
Sì, quei pescatori avevano trovato una tonnellata di cocaina. E Netflix ha colto l’occasione per realizzare un documentario su questo incredibile evento, dimostrando che la storia è abbastanza ricca per una serie, un documentario e molto altro ancora.
Ci sono luoghi sulla mappa che sembrano sospesi nel tempo, ancorati a una realtà dettata dalla geografia e non dall’orologio. Le Azzorre, “nove isole perdute in mezzo al nulla”, sono uno di questi luoghi. Per secoli, la loro storia è stata una storia di isolamento, povertà, tempeste, vulcani e terremoti.
Sulla costa nord dell’isola di São Miguel, la più grande dell’arcipelago, si trova Rabo de Peixe, una delle più grandi comunità di pescatori delle Azzorre e, allo stesso tempo, uno dei comuni più poveri di tutto il Portogallo. La vita qui è una metafora della sua geografia: selvaggia, dimenticata e crudele. Con una popolazione di circa 7.500 abitanti all’epoca, l’esistenza ruotava attorno ai capricci dell’Oceano Atlantico.
La pesca artigianale segnava il polso della comunità. Quando il tempo non permetteva di uscire in mare, la vita si fermava in “ore morte”, momenti di inattività trascorsi sulla riva di una scogliera di cemento, pensando a come abbandonare quel pezzo di terra inerte. Era un luogo dove non succedeva mai nulla. Lo stesso isolamento che aveva forgiato il loro carattere e i loro forti legami comunitari per generazioni sarebbe diventato, in modo imprevisto, la loro più grande vulnerabilità. La mancanza di esposizione al mondo esterno significava che la comunità non aveva difese culturali o psicologiche contro ciò che stava per arrivare. Non possedevano le conoscenze di base per identificare il pericolo, né tanto meno il suo valore.
Tutto è iniziato con un pescatore. Un uomo dell’umile villaggio fu il primo a scoprire una grande quantità di pacchi sulla costa. Poco dopo, i pacchi, avvolti in plastica e gomma, iniziarono ad apparire sulle spiagge, cullati dalle onde come una strana offerta del mare. Nella località di Pilar da Bretanha, un uomo trovò un grande cumulo coperto di plastica nera. Sotto, decine di piccoli pacchetti contenevano una sostanza che gli sembrò farina. Decise di chiamare la polizia.
Ma non tutti lo fecero. Man mano che la notizia si diffondeva nel villaggio a macchia d’olio, si scatenò una “frenetica caccia al tesoro”. Decine di persone, dagli adolescenti agli anziani, si lanciarono sulle coste. La reazione iniziale non fu criminale, ma di curiosità e opportunismo nati da una povertà endemica. Per una comunità la cui sussistenza dipendeva da ciò che il mare offriva, quella sembrava una strana benedizione. L’oceano, il loro abituale fornitore di sostentamento, consegnava ora una polvere bianca e sconosciuta.
L’ignoranza sulla natura della sostanza era totale e assoluta. La cocaina, fino ad allora considerata una “droga d’élite” e praticamente inesistente sull’isola, era un concetto estraneo. La memoria collettiva di Rabo de Peixe ricorda scene che rasentano il surreale: donne che avrebbero impanato lo sgombro con la cocaina invece che con la farina, e uomini di mezza età che la aggiungevano a cucchiaiate nel caffellatte mattutino, scambiandola per zucchero. Si è persino detto che la droga sia stata usata per dipingere le linee di un campo di calcio. Questi racconti, più che semplici aneddoti sensazionalistici, sono il simbolo di una profonda e innocente tragedia.
Ciò che la comunità non sapeva era che quella “farina” aveva una purezza superiore all’80%, una potenza molto al di sopra di quella che si trova solitamente sul mercato nero. Questo dato scientifico spiega la devastante crisi sanitaria che ne seguì. La sostanza, un prodotto del valore di milioni di euro sul mercato internazionale, subì una strana trasformazione economica sull’isola. A causa della sua abbondanza e della mancanza di un mercato che potesse assorbirla, il suo valore si invertì. Smise di essere una merce di alto prezzo per diventare una sostanza di consumo immediato, quasi gratuita e, quindi, letale.
Senza un mercato consolidato, il prezzo divenne assurdo. Un bicchiere piccolo di birra, riempito fino all’orlo di cocaina, veniva venduto per le strade all’equivalente di poco più di 20 euro. La gente vendeva a volume, non a peso, una pratica inaudita nei mercati della droga consolidati che rivela una totale incomprensione del prodotto. Diversi isolani si trasformarono in trafficanti improvvisati, trasportando la cocaina per tutta l’isola in bidoni del latte, lattine di vernice e calzini.
Le conseguenze non tardarono ad arrivare. Gli ospedali dell’isola furono travolti, sull’orlo del collasso, da un’epidemia di overdose. I medici apparivano sulla televisione locale supplicando la popolazione di porre fine alla “follia”. Furono settimane di “panico, terrore e caos”. Le statistiche non ufficiali, raccolte da giornalisti e personale sanitario, indicano circa 20 morti solo nelle tre settimane successive all’arrivo della droga.
Il catalizzatore di questa catastrofe fu un uomo: Antonino Quinci, un siciliano soprannominato “O Italiano”. Navigava su una barca a vela modello Sun Kiss 47 in una traversata iniziata in Venezuela, con l’ordine di portare il carico di cocaina fino in Spagna. Tuttavia, una forte tempesta si abbatté sulla barca, rompendo il timone. Alla deriva, Quinci decise di nascondere la merce in una grotta sulla costa di São Miguel, assicurandola sul fondo del mare. Ma la furia dell’oceano ruppe gli ormeggi e i pacchi furono spinti dalle correnti verso la costa di Rabo de Peixe.
La polizia si trovò a combattere su due fronti: confiscare la droga e trovare la barca. L’indagine fece un passo avanti quando la polizia trovò un piccolo pacco nascosto in uno yacht, avvolto in un giornale con la stessa data di quelli trovati nei pacchi sulla spiaggia. Antonino Quinci fu arrestato e, sentendosi in colpa per il disastro causato, collaborò. Mentre aspettava il processo, fu protagonista di una delle evasioni più surreali della storia portoghese, scalando il muro della prigione. Fu catturato di nuovo settimane dopo, consolidando il suo status di leggenda locale.
Uno dei più grandi misteri che persistono è la quantità reale di droga. La versione ufficiale parla di quasi 500 chili, ma giornalisti e abitanti del luogo sostengono che la cifra sia assurdamente bassa, ipotizzando che un’imbarcazione del genere potesse trasportarne fino a 3.000 chili. L’evento creò uno stigma duraturo per il villaggio, alimentato da aneddoti surreali. Alcune voci, come quella dell’autore locale Rúben Pacheco Correia, sostengono che Rabo de Peixe sia stato un capro espiatorio per un problema che ha colpito l’intera isola. L’eredità è complessa: da un lato un profondo impatto sociale con problemi di dipendenza, dall’altro alcuni studi mettono in discussione un declino sociale totale. Anche la figura di Antonino Quinci rimane avvolta nel mistero, con recenti indagini che suggeriscono collegamenti con un cartello colombiano.
In questo contesto nasce un nuovo documentario. Intitolato Neve alle Azzorre: l’incredibile storia di Rabo de Peixe, è una produzione di Portocabo Atlántico, diretta da João Marques e scritta da Marcos Nine. Il suo scopo è esplorare l’incidente attraverso molteplici prospettive, riunendo le testimonianze dei protagonisti per presentare una verità più umana e complessa, nel tentativo di andare oltre il folklore.
Una tempesta, un timone rotto e mezza tonnellata di cocaina cospirarono per alterare il destino di una remota isola atlantica. Gli effetti di quella marea bianca furono devastanti, lasciando una cicatrice nella memoria di una comunità che non aveva mai chiesto di essere protagonista di una storia così incredibile.
L’incidente iniziato sulla costa delle Azzorre nel giugno del 2001 è il tema del nuovo documentario. Neve alle Azzorre: l’incredibile storia di Rabo de Peixe debutta su Netflix il 17 ottobre.