Ci sono immagini che non hanno bisogno di presentazioni. Si tatuano nella retina collettiva e definiscono intere epoche. Una bambina, nuda e terrorizzata, corre a braccia aperte su una strada di asfalto rovente mentre il fumo nero del napalm divora il cielo alle sue spalle.
Quella fotografia non ha solo contribuito a porre fine a una guerra; ha definito la nostra concezione del dolore, dell’innocenza e del fotogiornalismo. Per mezzo secolo, la storia dietro quell’immagine è rimasta monolitica, intoccabile. Ci hanno raccontato che un giovane e coraggioso fotografo dell’Associated Press (AP), Nick Ut, era lì, ha scattato la foto e poi ha salvato la bambina.
È una storia perfetta di eroismo e tempismo. Ma se questa storia fosse, in realtà, una costruzione aziendale? E se l’occhio che ha realmente visto quell’orrore appartenesse a qualcuno il cui nome è stato cancellato per una manciata di dollari e dalla burocrazia occidentale? Il documentario “The Stringer: chi ha scattato quella foto?” arriva per demolire il mito. Non è solo un film; è un’autopsia forense della memoria storica. E ciò che trova tra le ossa del passato è scomodo, doloroso e profondamente umano.
L’e-mail che ha cambiato tutto
Le grandi rivelazioni raramente iniziano con i fuochi d’artificio; spesso cominciano con un sussurro. In questo caso, è stata un’e-mail. Il mittente era Carl Robinson, un veterano editor fotografico che aveva lavorato nell’ufficio di Saigon durante gli anni più duri del conflitto. L’oggetto del messaggio presagiva già la tempesta: “Parte 2: Chi ha scattato davvero la foto della ‘bambina del napalm’? Un insabbiamento lungo 50 anni”.
Robinson, portando il peso di una coscienza inquieta per decenni, ha deciso di confessare un segreto a Gary Knight, un rinomato fotografo di conflitti. Il suo racconto era semplice e devastante: la foto non era di Nick Ut.
Secondo Robinson, l’ordine arrivò dall’alto, dal leggendario editor Horst Faas. Bisognava attribuire l’immagine a Ut. Perché? Perché Ut era un dipendente fisso, era “uno dei loro”, il fratello di un altro fotografo caduto. L’agenzia aveva bisogno di un proprio eroe, non di un collaboratore esterno, non di uno “stringer”.
I fantasmi della guerra
Per capire il dramma, bisogna comprendere cosa sia uno “stringer”. Nell’ecosistema del giornalismo di guerra, sono il plancton che nutre le balene. Fotografi locali, autisti, gente che si arrangia rischiando la pelle senza assicurazione sanitaria, senza stipendio fisso e, spesso, senza alcun riconoscimento.
L’inchiesta del documentario ci porta in California, in una casa modesta dove vive un anziano di nome Nguyen Thanh Nghe. Nghe non è famoso. Non ha tenuto discorsi davanti al Papa né ha ricevuto il Pulitzer. Ma assicura, con una tranquillità disarmante, che lui era lì. Che è stato lui a scattare la foto.
Il suo racconto è straziante nella sua banalità burocratica. Racconta che quel giorno, dopo il bombardamento, tornò in città e consegnò il suo rullino all’ufficio dell’agenzia. Un editor occidentale esaminò le immagini, ne scelse una, tenne il negativo e lo pagò per il suo lavoro. Il prezzo per entrare nella storia ed esserne poi cancellato: venti dollari e due rullini di pellicola vergine.
“Ho lavorato sodo per questo, ma quel tizio si è preso tutto”, dice Nghe davanti alla telecamera, non con rabbia, ma con la rassegnazione di chi ha vissuto tutta la vita sapendo una verità a cui nessun altro credeva.
CSI: Vietnam
Il fascino di questo documentario sta nel fatto che non si ferma alla parola di un uomo contro quella di un altro. Diventa un thriller tecnologico. I cineasti hanno ingaggiato INDEX, un gruppo di esperti forensi con sede a Parigi, per ricostruire digitalmente quel giorno. Gary Knight descrive il processo come se il film Blow-Up incontrasse CSI.
Utilizzando tutte le foto e i filmati d’archivio disponibili, hanno creato un modello tridimensionale della strada, dei soldati, dei bambini e dei fotografi. Hanno calcolato le ombre, le linee di visuale e gli angoli. Il risultato dell’analisi forense è un duro colpo alla storia ufficiale.
Il modello colloca Nick Ut in una posizione dalla quale, secondo i calcoli, non avrebbe potuto scattare quell’immagine specifica. L’angolazione, la prospettiva, tutto si allinea con la posizione di Nghe. Inoltre, c’è la questione della macchina fotografica. Il negativo originale mostra caratteristiche tecniche proprie di una fotocamera Pentax. Nghe usava una Pentax. L’agenzia sostiene che anche Ut ne avesse una, ma la coincidenza della posizione e dell’attrezzatura fa pendere l’ago della bilancia del dubbio in modo allarmante.
Il terremoto istituzionale
Le ripercussioni di queste rivelazioni sono state sismiche. L’Associated Press, gelosa custode della propria eredità, ha fatto quadrato, difendendo la sua versione e la paternità di Ut dopo aver condotto una propria indagine interna. Per loro, la mancanza di una ricevuta di mezzo secolo fa o di prove assolute è motivo sufficiente per non riscrivere la storia.
Tuttavia, la fondazione World Press Photo, la stessa che premiò l’immagine a suo tempo, ha preso una decisione storica e radicale. Di fronte al “dubbio significativo” e all’impossibilità di certezza, hanno deciso di sospendere l’attribuzione del premio a Nick Ut. Non lo hanno ancora assegnato a Nghe, ma hanno ritirato la certezza ufficiale. È un riconoscimento tacito che la storia che ci hanno raccontato potrebbe essere falsa.
La redenzione di un uomo invisibile
Al di là della tecnica e delle polemiche, “The Stringer: chi ha scattato quella foto?” è una storia sulla dignità. Il regista Bao Nguyen parla di dare voce a una generazione di vietnamiti che sono stati emarginati, le cui storie sono state assorbite dalla macchina narrativa occidentale. Nghe è il volto di tutti quei collaboratori anonimi.
Il momento culminante di questa storia non è avvenuto nella giungla, ma di recente, in un festival del cinema tra le montagne dello Utah. Dopo la proiezione del documentario, Nguyen Thanh Nghe, l’uomo invisibile, è salito sul palco. Di fronte a una standing ovation, con la fragilità degli anni ma la fermezza della verità, ha detto semplicemente: “Ho scattato io la foto”.
È stata la chiusura di un ciclo di silenzio durato una vita intera. Questo documentario non ci chiede solo di mettere in discussione una foto; ci chiede di guardare ai margini della storia, dove abitano i veri protagonisti che non sono mai apparsi nei titoli di coda.

